Quale integrazione

Integrazione sociale

Lavoro, socialità, collaborazione, civile convivenza 

 

integrazione sociale
Integrazione sociale

 

 

 

L’importanza semantica

E’ un rapporto quotidiano ciò che riscontriamo verso la parola integrazione, spesso seguita dall’aggettivo sociale. Si tratta di una parola complicata, spesso e volentieri lasciata sullo sfondo, non considerata a dovere.

Abbiamo approfondito il suo significato, la sua importanza semantica, giungendo alla conferma della nostre attese: il suo valore antropologico.

Nella vita sociale non si può prescindere dal significato dell’integrazione, poiché in essa ci sono valori non solo morali ma di partecipazione e convivenza civile.

 

integrazione sociale
L’idea di partecipazione

 

 

Un termine obsoleto

A parlare di integrazione sono normalmente gli operatori dei media. Normalmente essi si riferiscono alle persone che si inseriscono in un certo ambiente (sociale). Altrettanto di consueto, i media usano la parola integrazione per dare uno status agli stranieri immigrati. Implicitamente, per i media affermare che uno straniero è integrato significa dare un tono di rassicurazione al pubblico. Al contrario, la persona non integrata potrebbe, tacitamente, essere in grado di ogni tipo di devianza.

 

 

integrazione sociale
Per i media integrazione sociale si riferisce al risultato dell’immigrazione straniera

 

 

Le scienze sociali, soprattutto accademiche, hanno abbandonato la parola integrazione per motivi di studio, ovverosia poiché quel termine pare non essere in grado di interpretare al meglio il mutamento sociale in atto.

Attualmente, integrazione ottiene interpretazioni diverse dalla politica (e dai media) e possibilmente dalle scienze sociali. La politica la usa in modo generico senza fornire ulteriori specifiche, senza dare precise linee interpretative; al contrario le scienze sociali si preoccupano di studiarne la complessità in modo dettagliato.

Per le scienze sociali, integrazione è un termine polisemico vale a dire che può avere più significati, ma è anche polivalente quindi ben adattabile al linguaggio corrente (soprattutto dei media); pertanto è meno utile alla comunicazione cosiddetta scientifica perché ogni volta andrebbe contestualizzato e specificato.

Le scienze sociali hanno proposto di sostituire integrazione con la parola inclusione.

 

 

Quale integrazione

Abbiamo riflettuto in merito a quale integrazione si parli sui canali di informazione. Il tema dell’integrazione evoca scenari sociali rassicuranti, fintanto che rimane di segno positivo, ossia finché si racconta di un successo.

Non mancano esempi di uso in pubblicità per sottolineare come un dispositivo (elettronico, meccanico) sia integrato nell’intero apparato di cui fa parte, contribuendo al suo corretto funzionamento. Ribadiamo: per il suo corretto funzionamento.

E’ quello il fulcro della riflessione: essere parte di un insieme, come un organo del corpo umano, come un meccanismo di un prodotto commerciale, che fornisce un sostanziale contributo per il funzionamento dell’intero sistema.

Se trasliamo il senso all’ambiente sociale, possiamo inserire la parola integrazione riferita alle persone, al loro rapporto con i gruppi: sportivi, parrocchiali, professionali, di quartiere. Un gruppo funziona se le persone al suo interno sono integrate, se gli attriti sono ridotti al minimo e quando si presentano sono risolti in via diplomatica.

 

 

Integrazione sociale

Una persona è integrata (socialmente parlando) quando è inserita in un ambiente sociale, esercita una professione, coltiva interessi che la relazionano con altre persone (volontariato, sport, religione), rispetta le regole della civile convivenza, non manifesta particolare devianza (reati contro il patrimonio, contro le persone, contro la collettività, eccetera). Una persona è integrata se partecipa alla vita collettiva rispettandone le regole generali e particolari.

Una tipica obiezione sentita è che si tratta di un contenuto populista, perché relega la partecipazione umana al rispetto dello status quo. Perché sono i contenuti più facilmente ottenibili da chiunque per strada.

 

 

Integrazione e funzionalismo

«Stato variabile di una società – ovvero di un sistema sociale, di un gruppo, o altra collettività – caratterizzata dalla tendenza e disponibilità costanti da parte della gran maggioranza degli individui che la compongono a coordinare regolarmente ed efficacemente le proprie AZIONI SOCIALI con quelle degli altri a diversi livelli della struttura della società stessa (o di altro sistema), facendo registrare un grado relativamente basso di CONFLITTO, oppure procedendo di norma a risolvere i casi di conflitto con mezzi pacifici. (…)

L’integrazione sociale è al tempo stesso una condizione necessaria per l’esistenza durevole di collettività di qualsiasi tipo – è cioè un imperativo funzionale, nel linguaggio e nel quadro di riferimento del funzionalismo – e un effetto della loro prolungata esistenza.» (L. Gallino)

Nei contesti sociali dove il conflitto tra le persone è alto, possiamo facilmente constatare che il livello di collaborazione e di rispetto delle regole di civile convivenza sia basso, che la situazione generale sia precaria e traballante. E’ altamente improbabile che le persone si integrino in un ambiente dove esiste un alto grado di conflitto.

Tuttavia, il discorso funzionalista dell’integrazione sociale non piace perché evoca fantasmi come il mantenimento dell’ordine, dell’armonia, della convivenza pacifica. Alcuni seguaci del cosmopolitismo denunciano il funzionalismo in quanto retrogrado, non rispettoso delle diversità, perché non accetta il mutamento sociale.

Essendo il pensiero cosmopolita ampiamente a favore dell’abbattimento di qualsiasi frontiera e dell’accoglienza di chiunque si presenti ai confini nazionali (preferibilmente aperti), si capisce l’idiosincrasia che manifesta su ogni tentativo di mantenere un qualsivoglia ordine sociale. L’integrazione mira (o dovrebbe mirare) al buon funzionamento del tessuto sociale, permettendo a chiunque di vivere in armonia e rispetto reciproco. Per questi motivi può essere usato come indicatore, come indice di osservazione.

 

 

Integrazione: mai senza il suo contrario

Gli indicatori negativi dell’integrazione ci permettono di osservarne l’assenza: marginalità, povertà, esclusione.

Marginalità è il collocamento ai margini della comunità, è la mancanza di partecipazione alla vita sociale generale, per ciò che riguarda il lavoro, il consumo di beni e servizi, la cultura, le relazioni (G. Lazzarini, 1993). Si può giungere ai margini anche solo per uno degli aspetti elencati; va da sé che più sono le carenze più grave è lo stato di marginalità.

L’esclusione si riferisce alle risorse fruibili, beni primari e secondari, alle risorse relazionali al lavoro. Ci consegna una certa ridondanza di senso rispetto alla marginalità, sebbene per alcuni osservatori essere esclusi dal flusso delle risorse sia di segno peggiore, in quanto si correli allo stato di povertà. Essere esclusi dal territorio in cui si vive, esclusi dal tessuto economico, essere privi (o privati) delle relazioni di mutuo aiuto garantite dalla famiglia e dalla comunità locale (vicinato, quartiere).

Risultare esclusi dalla socialità evidenzia il contrario dell’integrazione sociale. Essere privi di beni e risorse colloca la persona in situazione di povertà, relativa o assoluta. Non c’è appartenenza al territorio, non c’è partecipazione alla socialità, manca l’integrazione (si veda G. Pieretti, 1998).

Ecco la polisemia tanto paventata; la parola integrazione richiama molte altre parole che la definiscono al contrario, ma che creano incertezze riguardo al loro significato positivo relativo:

Marginalità/centralità (partecipazione)

Esclusione/inclusione

Integrazione/emarginazione.

Povertà/?

 

 

Esclusi/emarginati

A chi ci riferiamo quando usiamo la parola integrazione, in modalità ordinaria e non scientifica?

Abbiamo già risposto in precedenza, constatando che i media se ne servono per raccontare il tema dell’immigrazione.

Per noi questa narrazione è limitata e non esaustiva. L’integrazione sociale non riguarda solo gli stranieri immigrati, bensì si rivolge a tutte le categorie sociali che subiscono deprivazioni in termini di risorse e partecipazione alla vita collettiva. Come si nota, integrazione in quanto riferimento al suo contrario.

Di rado si parla di integrazione di persone in stato di bisogno, che migliorano la propria condizione lavorativa, di relazione.

A questo punto crediamo sia posizionata la cesura semantica che i media fanno quando usano la parola integrazione sociale.

Anziani soli e abbandonati spesso in stato di indigenza, donne escluse dal tessuto economico oppure con occupazioni precarie e sottopagate, giovani non studenti a rischio di essere inglobati nella microcriminalità locale, persone senza fissa dimora nei luoghi reconditi delle città, sono esempi di categorie posizionate ai margini delle comunità locali.

 

Integrazione sociale
Le poltrone vuote segnalano l’assenza di integrazione sociale

 

Refrattari all’integrazione

Il riferimento mediatico e giornalistico, in genere, che tratta il tema dell’integrazione degli stranieri immigrati tende a semplificare un quadro decisamente complesso. L’impressione che si ha è la confortante tendenza che avrebbe l’immigrazione di massa.

Gli operatori dei media si prodigano per raccontare episodi di felice integrazione, senza enumerarli, senza dare informazioni relative alle differenze culturali peraltro fondamentali per capire il fenomeno in atto.

Il coacervo creato dall’immigrazione di massa dovrebbe essere analizzato partendo dagli aspetti culturali, che permettono di avere strumenti per sapere se quella certa etnia sia compatibile con la comunità che la ospita.

Integrazione sociale è partecipazione alla vita economica, ma anche rispetto di usi costumi e leggi della comunità ospitante. Persone straniere immigrate che commettono crimini contro la persona, contro la proprietà, contro la civile convivenza manifestano di essere sul terreno contrario all’integrazione. Quelle persone pare che non abbiano alcuna intenzione di integrarsi nella società che li ospita.

Su questo argomento, invitiamo i lettori a consultare i nostri contributi specifici:

Culture incompatibili, integrazione assente

Il ghetto urbano islamico: EUROISLAM

Integrazione fittizia

Il migrante cosmopolita

 

 

Destino mediatico dell’integrazione sociale

Crediamo sia doveroso sottolineare con decisione che la parola integrazione (sociale) sia attualmente usata per lo più dal settore giornalistico. Ampia parte delle scienze sociali considera l’integrazione un termine inadatto all’analisi del mutamento sociale (nonché della realtà), poiché necessariamente sottoposto a interpretazione in chiave (appunto) funzionalistica. In modo più approfondito, si spiega che l’integrazione sociale è un termine politicamente scorretto, per le sue connotazioni facilmente manipolabili, in termini culturali ed etnici. Oltre a ciò, si contesta la miriade di parole potenzialmente contrarie, che ne aumentano la confusione semantica (polisemia).

Per quei motivi, le scienze sociali hanno abbandonato al suo destino mediatico l’integrazione sociale. Quasi esclusivamente, essa si usa nella comunicazione ordinaria per trattare l’ingresso di stranieri nel tessuto sociale locale e nazionale. Giornalisti e addetti stampa se ne servono per tranquillizzare l’opinione pubblica, quando sottolineano che quella persona è si straniera immigrata ma è anche integrata.

Pertanto, integrazione sociale è usata in termini positivi e rassicuranti, ma anche in termini limitati e tendenziosi.

 

 

Riferimenti e letture

L. Gallino, “Dizionario di sociologia”, TEA-UTET, Torino, 1993 

G. Lazzarini, “L’integrazione sociale”, Franco Angeli, Milano, 1993 

S. Cecchi, “Modernità e inclusione sociale”, CEDAM, Padova, 2007 

G. Aldobrandini, “Saggi sull’integrazione sociale”, Gangemi, Roma, 1984

AA.VV. “Inclusione sociale”, Bonanno, Acireale, 2014 

P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi, “Gli esclusi dal territorio”, Franco Angeli, Milano, 1997

P. Guidicini, G. Pieretti, “Città globale, città degli esclusi”, Franco Angeli, Milano, 1998 

P. Rossi (a cura di), “Il concetto di cultura”, Einaudi, Torino, 1970 

 

 

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Pubblicato da Il Sociale Pensa

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