Un sentimento che non appare esternamente
Una sensazione latente
Talvolta avvertiamo un senso di vuoto, di mancanza. Non è sempre comprensibile, anzi spesso non si comprende affatto. Nonostante la compagnia, si sente la mancanza di una presenza definitiva. Non è un oggetto del desiderio, intercambiabile, generalizzato.
Quel sentimento consiste in una sostanza più radicale della “comune” solitudine, la quale ha caratteristiche fisiche, di contatto umano generico.
La presenza definitiva è sinonimo di una relazione principale, importante, tale da colmare il vuoto che percepiamo. E’ una sensazione latente, che non si staglia palesemente davanti a noi con contorni inequivocabili.
Il disagio creato dal senso di solitudine ha conseguenze nel sociale, grazie a questo è possibile trovare sollievo.
Incompletezza
Ci si deve interrogare sull’origine del senso di solitudine, è necessario identificare il contenuto (o meglio la sostanza) di tale disagio latente. L’approccio interdisciplinare ci ha offerto ottimi approfondimenti.
Gli studi psicanalitici di Melanie Klein (Vienna 1882, Londra 1960) hanno evidenziato la natura «interiore» del disagio da solitudine. Il senso di solitudine avverte l’individuo riguardo alla lontananza da uno stato interiore ideale, proiettato alla perfezione del sé. La condizione umana è caratterizzata dalla incompletezza.
Secondo gli studi della Klein, si può identificare il tempo della perfezione umana (in senso psicologico) nei giorni che il bambino passa con la propria madre. E’ il tempo dello stretto contatto tra i due inconsci, il bambino trova totale comprensione nella sua fase preverbale.
Quel tempo perfetto sarà sempre ricordato come fondante e susciterà un sentimento di nostalgia, il quale a sua volta creerà (o meglio contribuirà a creare) il senso di solitudine.
Perdita irreparabile
L’unità madre-bambino è il modello di integrazione che permette di esperire amore e comprensione, è il modello della relazione perfetta che osserva due inconsci intimamente e profondamente in contatto. Senza ridondanza, aggiungiamo che madre e bambino beneficiano di una relazione relativamente esclusiva.
Tutte le esperienze di vita seguenti di allontanamento, piccolo o grande, generano fratture che tormenteranno l’individuo negli anni a venire. L’individuo manifesterà uno specifico bisogno di unità, proiettando all’esterno da sé (pertanto nel sociale) la ricerca di una relazione intima così tanto importante.
L’individuo sarà portato a creare fantasie attraverso personificazioni, a causa del bisogno di unità, che sia un amico immaginario oppure un compagno di giochi del vicinato. Si sottolinea la necessità di una persona che lo comprenda totalmente, una versione speculare del proprio sé.
Il distacco dalla madre rimane, psicologicamente, come esperienza di perdita irreparabile.
La banalizzazione più comune ci consegna l’espressione “anima gemella”, una persona (fidanzato/fidanzata) che ci accompagni con affetto speciale, in una relazione esclusiva.
Algebricamente negativo
Il senso di solitudine appare internamente all’individuo, quale senso algebrico negativo rispetto alla sua integrazione. Melanie Klein definisce l’integrazione individuale come lo stato di equilibrio e di pace interiore, che porti a «riunire le parti scisse dell’Io». Ciò che l’individuo esperisce nella iniziale relazione esclusiva con la madre.
L’individuo è davanti al processo della propria integrazione, il cui difficile percorso prevede la perdita di una parte dell’idealizzazione, ossia rendersi conto che lo stato personale può solo approssimarsi alla perfezione. Tale de-idealizzazione risulta triste e dolorosa, ma necessaria.
Nostalgia, angoscia, senso di vuoto interiore, disperazione sono manifestazioni del senso di solitudine che nascono nell’individuo. Dai casi più lievi a quelli più gravi, si può osservare un indebolimento dell’io, la frammentazione del sé.
L’argomento del senso di solitudine pone domande personali che non possono rimanere disattese a lungo, non solo perché riguarda la necessità di risolvere l’isolamento e riempire la mancanza, ma altresì poiché si riferisce alla gestione dei processi relativi appunto all’isolamento e alla mancanza. E’ inequivocabile che il senso di solitudine provochi disagio e sofferenza individuali.
La relazione
«Cos’è mai questa solitudine “da perdita”, se non il dolore e il rimpianto per non avere più la persona cara e non poter soddisfare tutti quegli scopi (vederla, toccarla, parlarle, svolgere attività comuni, ecc.) che lei e il rapporto con lei permettevano di appagare?
Anzi, non esisterebbe in realtà un senso di solitudine “da perdita”, perché il senso di solitudine esprime soltanto la sofferenza per la mancanza di una relazione.
Il senso di solitudine è sofferenza per la mancanza non tanto di quella particolare persona, ma di quel tipo di rapporto» (M. Miceli, 2003).
Parafrasando Melanie Klein, il ricordo (spesso inconscio) del distacco dalla propria madre ritorna quando perdiamo il rapporto con un altra persona cara (amico, amica, fidanzato, fidanzata), perché abbiamo perduto la relazione speciale con quella determinata persona. Il senso di solitudine si radica nella mancanza dell’idea di relazione, si manifesta nella nostalgia dei benefici affettivi goduti grazie alla relazione con la persona cara, che non c’è più.
Il senso di vuoto rimane
Il sentimento di solitudine è un fattore interno, personale, insindacabile. Rimane in noi, ognuno lo manifesta a proprio modo, in base alla propria psicologia. Esso esiste, sebbene alcune persone lo neghino. Può essere mitigato, ma non rimosso del tutto.
I rapporti esterni (sociali) sono buona pratica, aumentare la propria autostima ci avvantaggia, produrre pensieri felici ci rallegra, accettare le difficoltà quotidiane ci permette di gestire le frustrazioni. Rassegnarsi al senso di vuoto non è facile, tuttavia significa vedere una via che conduce alla tolleranza delle proprie sofferenze, conducendo sé stessi al raggiungimento di relazioni affettive significative.
La ricerca sempre attiva
Abbiamo di fronte un esperienza di nostalgia per il tempo della perfezione, che si snoda nella ricerca continua di una nuova relazione intellettuale ed emotiva. Nei fatti, consci o inconsci, l’individuo cerca comprensione (e affetto). Egli cerca attivamente un contatto tra il suo inconscio e l’inconscio di qualcun altro. Cerca l’unità che crei comprensione, anche definita empatia. Invero, è la forma di comunicazione più densa di contenuto.
Relazioni sterili
Nel carattere sofisticato dell’espressione senso di solitudine rientra, a buon titolo, il contatto sociale effimero e inautentico. Il classico proverbio recita “meglio soli che male accompagnati”: il cui significato non necessita di ulteriori approfondimenti.
Mancano stimoli relazionali, si è in compagnia di persone inadatte a noi per affinità caratteriali, oppure perché si è costretti a frequentarle. Altro caso è sentirsi soli in mezzo a poche o molte persone, nel cui gruppo estemporaneo ci si avverte come estranei, distaccati, talvolta ignorati (tappezzeria sociale).
E’ molto facile creare inconsciamente aspettative relazionali, quando si frequentano ambienti sociali ad alto tasso partecipativo: incontri ed eventi, feste, riunioni di vario genere. Poi, altrettanto facilmente, si scopre che quelle aspettative relazionali rimangono deluse dai fatti, poiché il comportamento delle persone è (quasi) imprevedibile. Ancor più negativa diventa la situazione in cui, in prima persona, non agiamo per introdurci nella comunicazione dei presenti.
Finta maschera
Per stare in compagnia spesso risulta necessario indossare una maschera che cambia la nostra immagine verso gli altri, rendendoci più appetibili, meglio accettabili. E’ questa l’introduzione al largo panorama della finzione, dove tutto può essere discutibile.
«La sofferenza della finzione non dipende soltanto dal disagio di non riuscire a rivelare chi siamo veramente. Accanto a questo può esserci anche la paura, più o meno inconfessata, di fare una scoperta terribile se riuscissimo a liberarci dalla maschera: non trovare nessuno dietro di essa (o nessuno che valga la pena di trovare)» (M. Miceli, 2003).
Si tratta del quesito personale sulla propria identità, la cui relazione con gli altri rimane una difficoltà da risolvere.
Relazione con
«La solitudine è definita dalla relazione all’altro; cosa che non avviene nell’isolamento. (…) La solitudine non è solo desiderio di relazione, nostalgia di relazione, ma è anche una dimensione essenziale di ogni relazione che sia fondata sulla alterità, e che tenga presenti la solitudine in chi parla e la solitudine in chi ascolta» (E. Borgna, 2010).
Il senso di solitudine è legato alla dissolvenza di significative relazioni sociali. Per rispondere a quel bisogno non va bene qualsiasi relazione, non si trova sollievo grazie alla folla, ma nemmeno in un ristretto gruppo di persone (come ad esempio il ritrovo estemporaneo di padri sconosciuti a una festa di bambini).
Il saluto distratto o forzato di conoscenti, per strada, conferma il vuoto sociale percepito nell’ampio ambiente urbano.
«Ci vorrebbe un amico
Per poterti dimenticare
Ci vorrebbe un amico
Per dimenticare il male
Ci vorrebbe un amico
Qui per sempre al mio fianco
Ci vorrebbe un amico
Nel dolore e nel rimpianto.»
(A. Venditti, 1984)
Appelliamoci al fare la conoscenza
Per risolvere il disagio del senso di solitudine, ci si rivolge al sociale. Possiamo riscoprire una relazione preesistente e valorizzarla, oppure ci appelliamo all’istituto del fare la conoscenza.
E’ molto importante considerare l’ambiente sociale, frequentarne uno che sia adatto alle proprie attitudini e inclinazioni. Non è facile per chiunque “buttarsi” nella mischia delle possibili conoscenze, soprattutto del tipo “ad ogni costo”, per cui meglio facilitare l’impresa in un contesto dove poter condividere i propri interessi con altri, senza nutrire troppe aspettative.
Il mondo contemporaneo globalizzato
Abbiamo assistito festanti all’abbattimento delle frontiere virtuali tra i paesi del globo. Abbiamo proceduto gioiosi all’acquisto di merci provenienti da ogni angolo del pianeta.
Globalizzazione e cosmopolitismo non sono progetti sociali gratuiti, ci sono dei prezzi da pagare.
Più connessioni internet aumentano le comunicazioni virtuali a danno di quelle tradizionali e genuine. La gente si ignora per strada e al supermercato, ma allarga le “amicizie su Facebook”. La socievolezza è come un bene economico scarso.
Si installano miriadi di relazioni superficiali “toccata e fuga”, senza sostanza né impegno, come in un gigantesco gioco di ruolo urbano.
Crediamo fermamente che si propaghi il senso di solitudine nel mondo globalizzato (e cosmopolita) perché si riducono le opportunità di stringere relazioni interpersonali significative, perché aumenta la complessità sociale.
Invitiamo alla lettura del saggio fondamentale dal titolo “La solitudine del cittadino globale” di Zygmunt Bauman.
Riferimenti bibliografici e letture
Maria Miceli, “Sentirsi soli”, Il Mulino Bologna, 2003
M. Klein, “Il nostro mondo adulto ed altri saggi”, Martinelli, Firenze, 1972
D. Petrelli, “Solitudine e integrazione. Note su Il senso di solitudine di M. Klein”, Rivista di Psicoanalisi, LXV, 2, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019
Eugenio Borgna, “La solitudine dell’anima”, Feltrinelli, Milano, 2010
Paolo Crepet, “Solitudini. Memorie di assenze”, Feltrinelli, Milano, 1997
Zygmund Bauman, “La solitudine del cittadino globale”, Feltrinelli, Milano, 2000
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