Rivoltosi cingono d’assedio la città
«Improvvisamente, il rumore sordo e regolare della circolazione urbana è interrotto da un confuso agitarsi di passi, di voci, di grida, di rumori metallici e di vetri infranti. Il flusso di automobili si arresta, si formano dei cortei, la massa in movimento si ingigantisce, striscioni di tela, di carta, di legno parlano di loro. E della loro città.”
(M. Castells, “Lotte urbane”, 1975)
Escalation della rabbia e della violenza
Accade talvolta che delle manifestazioni pacifiche si trasformino in atti violenti contro la città e i suoi abitanti. Da episodi apparentemente normali, come un controllo di Polizia, possono crearsi fatti violenti con conseguenti violenti proteste. Ancora, a seguito di comunicazioni pubbliche ed uscite editoriali intere comunità si sollevano violentemente con manifestazioni di rabbia.
Le città teatro dei fatti sono messe sotto assedio.
Sono solo piccoli esempi di ciò che può accadere in ogni momento, ovunque nel mondo.
L’assembramento
Crediamo sia necessario trattenerci su alcuni elementi antropologici relativi all’assembramento dei rivoltosi.
Ovunque in città si notano riunioni di individui qualsiasi, che chiacchierano senza un organizzazione collettiva. Si tratta della folla. In un momento successivo, tale folla può trascendere la personalità dei singoli per assumere caratteristiche collettive nuove diverse, diventando così una folla organizzata o folla psicologica: «migliaia di individui separati possono, a un momento dato e sotto l’influenza di certe emozioni violente, come ad esempio un grande avvenimento nazionale, acquistare le caratteristiche di una folla psicologica» (G. Le Bon, 1895).
La folla psicologica è impulsiva, irrazionale, sostanzialmente emotiva, è soggetta alle scariche di rabbia, quanto prodiga di atti di generosità verso chi è in pericolo. Essa è suggestionabile.
La folla psicologica (organizzata) è una massa aperta, ossia non ha limiti alla sua crescita, non riconosce limiti di spazio al suo movimento (E. Canetti, 1960).
I dimostranti che sfilano in città per un motivo preciso, concordato con le autorità, in un preciso lasso di tempo, costituiscono una massa chiusa: ha confini precisi, non aumenta, ha una precisa durata.
Scarica iniziale
La massa aperta dei manifestanti/rivoltosi si costituisce mediante una scarica iniziale. Grazie alla scarica, i partecipanti annullano le distanze tra loro per diventare appunto una massa che si muove all’unisono. E’ un’illusione momentanea quel senso di unità, che passerà quando la massa si disgregherà e i partecipanti torneranno alle loro case. Oppure l’illusione sarà rigenerata se altri partecipanti si uniranno alla massa, per continuare i suoi atti.
In breve, la scarica è il fattore emotivo che crea la massa/folla psicologica.
Impulso di distruzione
La devastazione, la distruzione, la violenza sono gli obiettivi consci o inconsci che la massa dei rivoltosi ha di fronte a sé.
«Case e oggetti sono ciò che la massa distrugge più volentieri. Poiché si tratta spesso di cose fragili, come lastre di vetro, specchi, vasi, quadri, vasellame, si è tentati di credere che proprio la fragilità degli oggetti stimoli la massa a distruggerli. Certamente il rumore della distruzione, il frangersi del vasellame, il fracasso dei vetri, contribuiscono considerevolmente ad aumentare il piacere» (E. Canetti).
I rivoltosi si compiacciono nella devastazione, prendono gusto nel distruggere oggetti e locali. Essi desiderano annientare i simboli della gerarchia che detestano, sfigurare le immagini del potere che odiano, aggredire la cultura della società che disprezzano.
La distruzione allarga i confini che la massa ha di fronte, il cui mezzo per eccellenza è il fuoco, il più terribile. «La massa che appicca il fuoco si considera irresistibile. Tutti si uniranno a lei mentre il fuoco divampa. Esso annienterà tutto ciò che le è ostile» (E. Canetti).
Il saccheggio
Alla massa dei manifestanti, si aggiungono personaggi indistinti che approfittano della situazione caotica per ottenere vantaggi personali. Durante gli scontri, si aprono spazi favorevoli all’assalto dei luoghi di consumo, in quanto le Forze dell’Ordine sono impegnate altrove.
I giornalisti documentano furti, razzie di negozi e centri commerciali, letteralmente svuotati delle merci esposte e immagazzinate.
«Non si odono slogan, richieste, rivendicazioni. Non si produce alcun documento politico di rilievo. L’unico elemento ricorrente, certo, visibile è il saccheggio» (M. Ilardi, 1990).
«Il saccheggio e la riappropriazione delle merci coniugano la radicalità del conflitto all’accettazione del consumismo, spiazzando analisti e commentatori, politici e sociologi, poliziotti e ministri degli interni» (M. Grispighi, 1990).
Svaligiare negozi e supermercati significa accedere al consumo senza pagarne il prezzo equivalente, esprime l’accettazione del modello culturale occidentale ma senza il relativo rapporto col reddito.
Come l’esproprio proletario, il saccheggio è appropriazione indebita come strumento di lotta politica.
Fatto singolare è l’indifferenza, se non l’aperta tolleranza, da parte dei commentatori verso i furti brutali visti durante le manifestazioni di protesta.
Non è possibile stabilire quante siano le persone che perpetrano i saccheggi, se siano la minoranza dei rivoltosi, l’impressione è tuttavia che siano numerose poiché sono parte della massa in movimento.
Le proteste per un qualsivoglia motivo non possono giustificare furti e rapine, nonostante ciò pare che tutto rientri nella logica e nelle aspettative proprie della città sotto assedio.
Il teatro degli avvenimenti
Le manifestazioni pacifiche e violente sono inscenate nell’ambiente urbano, più precisamente nella grande città, sede di edifici dirigenziali, nel luogo dove la presenza economica è più grande e importante.
Si tratta di capoluoghi di provincia, di regione e di stato, da cui il potere amministrativo e politico si propaga ovunque nel resto del paese. Sono le città globali, nelle quali la finanza opera, nelle quali la globalizzazione si rivela.
Nelle città globali coesistono diverse categorie sociali, dai residenti ai “city users”, dai dirigenti agli esclusi, dagli autoctoni agli immigrati stranieri.
Dove esistono contraddizioni sociali, è possibile che emergano attriti e difficoltà di convivenza, senso di ingiustizia.
Le diverse espressioni culturali – usi e costumi, religione, modi di vita – non sempre convivono pacificamente, si osservano sempre più spesso casi di incompatibilità.
I fatti che contano avvengono nel teatro cittadino, nella città globale.
Rivendicare lo spazio
«Lo spazio gioca un ruolo essenziale in molti dei grandi movimenti rivendicativi. Dato che le società industrializzate sono anche caratterizzate da una generalizzazione progressiva dell’urbanizzazione, la città o piuttosto l’urbano, sarà il luogo dei conflitti, come la fabbrica lo è stata nel periodo che si sta concludendo» (A. Touraine, 1976).
Lo spazio urbano è territorio di lotta e di conquista. Urbanisti e immobiliaristi se lo contendono, così pure i cittadini e i turisti sebbene per scopi diversi. Il controllo dello spazio urbano possiede un sostanzioso valore per ogni attore sulla scena.
Anche il rivoltoso desidera rivendicare lo spazio cittadino come suo, vuole conquistarlo, vuole sottrarlo all’odiato potere costituito per più tempo possibile.
Chi mette sotto assedio la città, parte da un vicinato per prendere un quartiere, avanza passando palmo a palmo il territorio da conquistare da saccheggiare.
Negare la città
Gli scontri rendono impraticabile la città, per una porzione temporale non definibile a priori. I quartieri interessati cambiano volto, diventano pericolosi per i cittadini ed i turisti che cercano un riparo. La città assediata è percorsa dai blocchi contrapposti: manifestanti/rivoltosi e Forze dell’Ordine. In verità, circola un terzo attore, rappresentato dagli operatori dei media, presente come osservatore per documentare i fatti.
I blocchi contrapposti negano la città, la trascendono da luogo di relazioni a teatro degli scontri. Le piazze, i centri storici, i musei, i mercati rionali, i parchi, le biblioteche, i palazzi dirigenziali perdono il proprio accesso e la loro importanza in quanto centri della vita sociale cittadina.
Nel tempo non di assedio, la città è insidiata dal dilagare dei non luoghi, dalla perdita di socialità, dalla distanza sociale, dall’indifferenza.
Durante l’assedio, la città è negata nella sua essenza, nel suo carattere antropologico, si raggiunge il livello più alto della crisi sociale.
Un fatto politico
Mettere sotto assedio una città ha conseguenze sociali, i cittadini e gli avventori subiscono disagi, spesso vere e proprie violenze. Una città assediata è un fatto politico, i manifestanti (meglio definiti rivoltosi, facinorosi, sovversivi, eversivi, violenti) distruggono e saccheggiano provocando una reazione delle amministrazioni politiche locali e nazionali.
Probabilmente, i rivoltosi non sopportano l’ordine corrente e la società vigente pertanto usano la violenza per manifestare la loro contrarietà. Usare la violenza per qualsiasi scopo è un atto contrario alla legge, ma secondo i gruppi di protesta è l’unica via per ottenere l’attenzione di chi dirige la città e lo stato.
Il ginepraio
Ogni qual volta che scoppiano conflitti e rivolte, l’opinione pubblica e i giornalisti si dividono in due categorie di pensiero: i favorevoli e i contrari. Si crea istantaneamente un ginepraio di considerazioni particolarmente intricato, in particolare in merito alla spiegazione dei fatti: perché il tumulto è scoppiato? Per fare valere le proprie opinioni, le parti si accusano a vicenda di essere ignoranti in materia e persino discriminatorie (razziste).
I rivoltosi suscitano simpatie in coloro che ne condividono le motivazioni, le inclinazioni politiche e ideologiche. Inoltre, i rivoltosi raccolgono consensi nelle comunità di appartenenza, nelle categorie sociali affini.
Il ginepraio assume contorni e contenuti vie più complessi, in ragione degli attori coinvolti dentro e fuori i disordini.
Abbiamo annotato tre diversi tipi di motivazioni, evidenziate nella grande discussione mediatica.
Motivazioni parte 1: la questione economica
I paesi della zona occidentale del Mondo sono protagonisti dello sviluppo inteso come economico, tecnologico, dei diritti umani. In sostanza, sono anche definiti come i paesi del benessere (G. Myrdal). I paesi fuori da quel club hanno maturato la consapevolezza del divario e hanno preso coscienza della necessità di colmarne la distanza.
Sappiamo che solo alcuni paesi si sono distinti per il progresso in materia economica e di democrazia (paesi emergenti come India e Brasile; le Tigri Asiatiche ossia Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan). Numerosi altri paesi chiamati “in via di sviluppo” sono rimasti indietro e sono stati oggetto di larga emigrazione verso Europa e Stati Uniti.
Crediamo che la parola “reddito” aiuti a comprendere la questione economica dentro e fuori allo scacchiere occidentale. Il reddito è correlato al benessere personale e collettivo.
«Il comune cittadino che vive in questi paesi felici ha sperimentato il continuo miglioramento della propria fortuna economica e vede nel futuro aprirsi prospettive sempre più brillanti per sé e per i suoi figli in una comunità nazionale che diviene continuamente più ricca e che, al tempo stesso, si sta avvicinando, con riforme graduali, a quegli ideali di democrazia sociale che è stato educato ad accarezzare. Ed è quindi del tutto naturale che non si preoccupi molto di pensare a quanto avviene nelle relazioni internazionali o a quel che accade fuori del suo paese, sempre che, nota bene, tali avvenimenti non minaccino il suo benessere e la sua sicurezza personale» (G. Myrdal, 1962).
Le disuguaglianze economiche, dentro e fuori il proprio paese, partecipano attivamente come cause di eventuali proteste sociali. Se in passato, la rabbia sociale si manifestava fuori dai paesi del benessere, nel tempo attuale essa compare nell’ambiente urbano occidentale.
Oltre alla già citata parola “reddito”, ipotizziamo che la parola “globalizzazione” aiuti ad inquadrare meglio l’intera riflessione.
Motivazioni parte 2: la questione ideologica/politica
Si tratta in concreto dell’argomento più pericoloso per qualunque commentatore e analista, perché trattarlo significa entrare in un campo minato.
Affermare che la città è sotto assedio da parte di rivoltosi con specifiche caratteristiche sociali/etniche/religiose/ideologiche espone a facili accuse di ignoranza e razzismo. La comunicazione politicamente corretta è stata adottata in ogni sede mediatica, prevedendo l’assoluta moderazione dei termini e delle espressioni fino all’implicita censura dei contenuti.
Nonostante la pietosa quanto ridicola cortina posizionata davanti ai fatti, i fatti stessi non cambiano la propria natura, solamente i più onesti analisti non mutano la propria posizione nel spiegarli (antropologi, sociologi, filosofi).
La città sotto assedio deve essere interpretata anche in base alla questione ideologica/politica, senza tralasciare gli elementi etnici e religiosi che caratterizzano i dimostranti/facinorosi/rivoltosi.
Motivazioni parte 3: la questione integrazione/inclusione
Numerosi studiosi parlano di rivolte come sfogo per la segregazione e l’esclusione subita dai protagonisti nelle zone urbane periferiche. Essendo i protagonisti delle recenti rivolte urbane per la maggioranza immigrati stranieri, l’attenzione è rivolta automaticamente verso la questione integrazione.
L’argomento integrazione/esclusione è il preferito soprattutto da alcuni esperti chiamati (sui media di massa e nei loro scritti) a spiegare i motivi che muovono i rivoltosi.
Disagio sociale, povertà, debole scolarizzazione, crisi degli alloggi, disprezzo culturale non hanno la stessa potenza evocativa durante le discussioni.
Gli esperti denunciano la mancata integrazione degli stranieri immigrati, identificandola nella carenza dei diritti sociali, soprattutto sul posto di lavoro.
In seconda battuta, gli esperti citano l’esclusione (generica) di cui sarebbero oggetto i rivoltosi. Probabilmente, essi si riferiscono all’esclusione dalla fruizione del bene città, così come si potrebbero riferire al significato di segregazione (confinamento) in certe zone cittadine.
Esclusione come contrario di inclusione. I colpevoli dell’esclusione e della segregazione verso gli immigrati stranieri sarebbero: la società nel suo insieme, i cittadini autoctoni, la Polizia, la politica tout court.
Esclusione sociale e segregazione spaziale indurrebbero, quindi, i rivoltosi a manifestare fino a mettere sotto assedio la città. Naturalmente, esclusione e segregazione sono fattori protagonisti mentre gli altri sono solo attori comprimari: povertà, globalizzazione, identità.
Accettiamo il tema dell’integrazione quale attore, ma non siamo convinti che esso sia il protagonista assoluto, così forte da riassumere la maggioranza delle spiegazioni.
Solitamente si sente parlare di esclusione sui media senza una pronta specifica, che sarebbe invece necessaria. Essere esclusi in un contesto urbano significa avere un accesso ridotto oppure negato alle risorse primarie, al lavoro alla socialità.
Gli stessi commentatori usano le parole esclusione ed emarginazione riferendosi solo agli immigrati stranieri, operando loro stessi una selezione arbitraria; essi non considerano affatto le seguenti categorie svantaggiate: anziani poveri e soli, donne disoccupate con o senza figli al seguito, giovani inoccupati. Queste ultime categorie sociali sono anch’esse oggetto di emarginazione, ma pare che partecipino in maniera esigua alle manifestazioni di protesta e che in maniera minore aderiscano ai saccheggi.
Per quanto riguarda invece la segregazione spaziale, si rimanda alla concentrazione in zone ghetto degli immigrati stranieri, senza però spiegare che:
a) spesso sono le amministrazioni locali che creano concentrazioni in alcuni quartieri e vicinati, perché di minore pregio, perché i residenti (per lo più anziani) non protestano troppo;
b) alcune etnie hanno l’usanza di concentrarsi autonomamente in talune zone urbane, per ricreare le proprie condizioni culturali e di prossimità con i correligionari.
In tal senso, le stesse etnie organizzate in comunità delimitate spazialmente non intendono affatto accettare l’integrazione nella società che li ospita.
Evoluzione dei rivoltosi
Nelle proteste del passato prossimo, specialmente degli anni 1970 e 1980, i dimostranti erano giovani interessati ai diritti civili, lavoratori in movimento per migliorare le condizioni salariali e l’orario di lavoro.
Negli anni ’90, si attivarono persone con caratteristiche etniche precise, come nel caso dei famosi “Los Angeles riots” (nella fattispecie gli afro-americani e gli ispanici).
All’inizio del nuovo millennio (anni 2000), le proteste sono state condotte da persone provenienti dal cosiddetto Terzo Mondo. Si tratta delle rivolte nelle Banlieues francesi ad opera di immigrati provenienti dal mondo arabo musulmano.
Negli ultimi due casi citati, nel materiale di studio rientrano i ghetti etnici urbani, luoghi in cui è stata incendiata la miccia della violenza.
Differenze culturali delle masse
Gustav Le Bon sosteneva nel 1895 che esistono differenze sostanziali riguardo alle folle organizzate che manifestano.
«Nell’irritabilità delle folle, nella loro impulsività e mutevolezza, così come in tutti i sentimenti popolari che analizzeremo, intervengono sempre i caratteri fondamentali della razza».
Sulla scorta di vari decenni di studi filosofici e sociologici, intendiamo cambiare il termine “razza” con il termine “etnia” e aggiungiamo la parola “cultura”.
Popolo e civiltà sono caratterizzati da una precisa cultura di riferimento, con usi e costumi, tradizioni, modi di vita, norme e regole di comportamento. Ogni popolo ha diverse modalità di trattamento delle emozioni, le esterna secondo differenze sostanziali, anche in momenti diversi della propria storia.
Parimenti, ogni cultura ha diversi criteri di gestione della collera (individuale e collettiva), nonché di accettazione degli sfoghi. Presso alcune comunità etniche, le persone si credono autorizzate a lasciare esplodere la rabbia a piacimento.
La crisi finanziaria ed economica in Argentina nel 2001 ha provocato rivolte a Buenos Aires; la crisi finanziaria in Italia dalla Parmalat (2003) all’infezione bancaria della Lehman Brothers Holdings (2008 e seguenti) non ha portato per strada grandi masse rabbiose.
Altro esempio è il disordine urbano creato durante il G8 di Genova (luglio 2001), in cui certi “manifestanti” misero a ferro e fuoco intere zone in nome dell’antiglobalismo ufficiale e dell’odio verso le Forze dell’Ordine.
La primavera araba ha sollevato le masse nel mondo musulmano, dal Magreb al Medio Oriente, con delle ripercussioni sociali ma senza quelle politiche.
Elementi emotivi come il libro “I versetti satanici” di Salman Rushdi (1989), il documentario di Theo Van Gogh (Paesi Bassi, 2004), le “vignette satiriche” della rivista francese Charlie Hebdo (2006-2015), hanno acceso la violentissima rabbia del succitato mondo musulmano. Quegli elementi hanno contribuito a creare la retorica della “Islamofobia”.
Un epoca di “normali” disordini
«Per le città, il XXI secolo si prospetta come un’epoca potenzialmente selvaggia, in cui i grandi centri risulteranno sempre più difficili da gestire a causa delle crescenti tensioni che li attraverseranno» (A. Petrillo, 2004).
Le grandi città, simbolo dell’economia, della finanza, del potere politico, della globalizzazione, sono e saranno il teatro di manifestazioni, che potrebbero trasformarsi spesso e volentieri in assedi.
Non possiamo nascondere il fatto che frequentemente i protagonisti dell’assedio urbano contemporaneo sono immigrati stranieri.
«L’immigrazione è un processo fondamentale della nuova politica economica transnazionale, un processo che interessa soprattutto le grandi città, in quanto qui si concentra la maggior parte degli immigrati negli Stati Uniti, in Giappone o nell’Europa Occidentale. Nella mia lettura l’immigrazione è uno dei processi costitutivi della globalizzazione odierna, ancorché non sia riconosciuta come tale nelle rappresentazioni convenzionali dell’economia globale» (S. Sassen, 2002).
Importanti città come Parigi e Londra ospitano loro malgrado disordini, violenze, saccheggi. Basta un pretesto qualsiasi, grave o meno grave, per mettere sotto assedio la città e svaligiarla.
I rivoltosi violenti non comunicano richieste precise, l’impressione immediata è che intendano sfidare l’ordine politico economico e culturale per odio. Nelle loro azioni c’è il rifiuto della società che li ospita, ma non chiariscono perché, sono gli esperti ad avanzare ipotesi, sulle quali campeggia la bandiera della mancata integrazione. La cui responsabilità è sempre attribuita alla società ospitante.
Tuttavia, le responsabilità dei problemi relazionali non sono solo di una parte, ma eventualmente di entrambe.
Riferimenti e letture
A. Petrillo, “Città in rivolta”, Ombre Corte, Verona, 2004
G. Le Bon, “Psicologia delle folle”, TEA, Milano, 2004
R. Park, “La folla e il pubblico”, Armando Editore, 1996
E. Canetti, “Massa e potere”, Adelphi, Milano, 1981
P. De Nardis, F.A.M. Caruso, a cura di, “Rabbia sociale”, Bonanno Editore, Acireale, 2012
G. Myrdal, “I Paesi del benessere e gli altri”, Feltrinelli, Milano, 1962
M. Castells, “Lotte urbane”, Marsilio, Padova, 1975
A. Melucci, a cura di, “Movimenti di rivolta”, ETAS Libri, Milano, 1976
M. Ilardi, a cura di, “La città senza luoghi”, Costa & Nolan, Genova, 1990
U. Melotti, “Immigrazione e conflitti urbani in Europa”, Quaderni di Sociologia, 43 – 2007
U. Melotti, a cura di, “L’abbaglio multiculturale”, SEAM, Roma, 2000
M. Delle Donne, U. Melotti, “Immigrazione in Europa”, Ediesse, Roma, 2004
P. Guidicini, “Migrantes”, Franco Angeli, Milano, 2008
S. Sassen, “Le città nell’economia globale”, Il Mulino, Bologna, 1997
S. Sassen, “Globalizzati e scontenti”, Il Saggiatore, Milano, 2002
Z. Bauman, “Un mondo fuori asse”, Laterza, Roma-Bari, 2023
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