La società che cura interessi privati e non sostiene i suoi membri
Introduzione
Società suicida è un termine adottato come ipotesi di lavoro e analisi. In letteratura non abbiamo finora trovato una definizione unanime e definitiva su ciò che abbiamo definito, arbitrariamente, come società suicida. Pertanto, abbiamo deciso di supplirvi unendo l’osservatorio sociale reale alle teorie che più vi si avvicinano.
Possono esistere diverse società suicide, ma in linea di massima, tutte possono essere ricondotte alla pratica di sacrificio nei confronti dei propri membri, o cittadini.
Il suicidio
Il suicidio è un “qualsiasi caso di morte derivata direttamente o indirettamente da un’azione positiva o negativa compiuta dalla vittima stessa e che quest’ultima sapeva che avrebbe dovuto produrre questo risultato” (R. Aron, “Le tappe del pensiero sociologico”, Mondadori, Milano, 1989, pag. 309).
Sono le parole del sociologo classico francese E. Durkheim, che nel 1897 studiò, con dovizia di particolari, il fenomeno dei suicidi. Il suicidio è un caso di morte, anche sociale, che riguarda le persone, quindi per assonanza può riguardare anche una società, o parte di essa.
Il suicidio può essere positivo se si va incontro alla morte per salvare qualcun’altro; negativo se ci si uccide senza un beneficio.
Suicidio e non integrazione
Durkheim studia il fenomeno dei suicidi come elemento disgregante rispetto alla società di cui si fa parte. Infatti per lui, il suicidio è un sottrarsi alla vita sociale nel modo più definitivo possibile. E’ un atto individuale contro la società. Durkheim propone come soluzione “l’organizzazione di gruppi professionali che favoriranno l’integrazione degli individui nella collettività” (R. Aron, “Le tappe del pensiero sociologico”, Mondadori, Milano, 1989, pag. 308).
Ribaltamento del suicidio
Ma se invece che il singolo membro della società a suicidarsi, fosse la società stessa a scivolare (volutamente o no) nel baratro del suicidio collettivo?
Se fosse la società a scegliere il suicidio sociale per un obiettivo ‘superiore’ rispetto alla somma dei singoli membri/cittadini?
In quel caso, la società si suiciderebbe per poi ‘rinascere’ in nuove forme. Su questa ipotesi, rimane da definire se il suicidio della società è volontario oppure forzoso.
Il suicidio “anomico”
Seguendo gli studi di Durkheim, consideriamo le classi di suicidio da lui individuate:
il suicidio egoistico, a causa del quale l’individuo si toglie la vita per motivi individuali, di non integrazione in un gruppo;
il suicidio altruistico, in base al quale l’individuo sacrifica la propria vita a vantaggio di un’altra persona, a favore di un gruppo o di un ideale superiore.
La terza classe di suicidio, studiata da Durkheim, è sicuramente la più interessante anche per il nostro ragionamento: si tratta del suicidio anomico. Il riferimento fondamentale è alla società moderna, alla sua crisi, alla crisi dei valori comuni, alla disintegrazione sociale, alla debolezza dei legami con la società di appartenenza (R. Aron, “Le tappe del pensiero sociologico”, Mondadori, Milano, 1989, pag. 312-315).
L’anomia è la mancanza di leggi e di organizzazione sociale (Dizionario Garzanti della Lingua Italiana, Milano, 1981). E’ una condizione di carenza di legami, di norme anche di valore collettivo. L’individuo si trova scollegato, distante dal corpus sociale.
Di quella situazione di distanza tra individuo e società, può avvantaggiarsi chi lavora all’obiettivo di non conservazione dello “status quo”.
Si osserva la crisi della società (moderna), come lo stesso Durkheim aveva sottolineato nei suoi studi sul suicidio e sulla divisione del lavoro sociale.
Dal suicidio individuale al suicidio della società
In tempi di crisi sociale ed economica, aumentano i suicidi tra le persone, purtroppo facilmente comprensibili a causa delle maggiori difficoltà che si devono affrontare per vivere (o meglio sopravvivere).
Se la società non interviene in tempo di crisi, a favore dei suoi membri/cittadini, diventa essa stessa suicida: si appropria dell’anomia, si allontana dai suoi componenti, tradisce il patto sociale con la collettività.
Alla società si riconducono le tre classi di suicidio individuate da Durkheim: egoistico, altruistico, anomico.
A vantaggio di chi?
Riteniamo che la società suicida diventi tale in vista di un beneficio, ma non per la collettività che l’ha fino a quel momento composta e sostenuta. Il beneficio può essere personalizzato a favore della dirigenza, oppure a vantaggio di un nuovo corpo sociale emergente che sostituirà il corpo precedente.
Riprendendo lo studio di Durkheim aggiungiamo che “la forza che determina il suicidio non è psicologica, bensì sociale” (R. Aron, “Le tappe del pensiero sociologico”, Mondadori, Milano, 1989, pag. 310).
Emarginazione di elementi sociali svantaggiati
I vari corpi della società sono poco o per nulla tutelati, sostenuti, supportati nella loro vita quotidiana e lavorativa. Un esempio, fin troppo abusato, riguarda i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro per motivi d’età o, più frequentemente per motivi di budget aziendale. Disoccupati ed “esodati” lasciati soli senza sostegno dalla collettività sono elementi sociali emarginati dalla stessa società, che noi definiamo suicida.
Se la società, nel suo complesso, non si cura degli anziani, dei poveri, dei giovani e delle donne sulla soglia della marginalità sociale, significa che dirige la sua attenzione verso priorità individualistiche: il potere politico, il prestigio militare, la corruzione. Di questo genere sono le società di molti paesi africani e la Corea del Nord (società egoista).
L’accoglienza filantropica
Un altro caso da considerare è relativo alle società che fanno dell’accoglienza illimitata la propria bandiera. Parliamo dell’accoglienza di estranei alla propria cultura, alle proprie usanze, ai propri costumi, alle proprie leggi.
La motivazione ufficiale è di tipo morale, propagandistico.
La filantropia e la beneficenza sono portati all’estremo. La dirigenza (politica e della società civile) convoglia sempre più risorse a sostegno dei nuovi arrivati, sottraendole ai ‘tradizionali’ bisognosi già presenti. La suddetta dirigenza giustifica i provvedimenti con il carattere d’emergenza del fenomeno, senza però tentare di governarlo, di studiarlo nella sua essenza.
In quella circostanza, se si pone come prioritaria la condizione dei nuovi arrivati a scapito dei cittadini autoctoni, la società si può infilare in una deriva difficile da governare, che potrebbe generare una crisi sociale dai risvolti molto importanti.
Se l’accoglienza degli estranei diventa strutturale, senza politiche di integrazione, di coesione sociale nei minimi particolari, la società rischia di diventare suicida.
Convivenza civile
Poniamo poi il caso non remoto, che i nuovi arrivati, così caldamente accolti, si dimostrino poco o per nulla inclini ad accettare le norme di convivenza civile (legislazione vigente, doveri civici, usi e costumi) della società ospitante. In quel caso, significherebbe che l’integrazione sarebbe posta su piani difficili da raggiungere, per assenza di un punto di incontro.
Qualora poi i nuovi arrivati dimostrassero di preferire un diverso sistema sociale a quello attuale vigente, si potrebbe prevedere un’evoluzione dei rapporti sociali e politici in base al loro numero e alla forza da essi raggiungibile. Contro la civile convivenza.
Per noi, è un suicidio altruistico perché ammantato da apparenti buoni propositi filantropici, che tuttavia possono sottendere interessi privati o di singoli gruppi (politici, associazionisti, malavitosi). La situazione potrebbe peggiorare ulteriormente a causa della non integrazione sociale.
Disgregazione della società suicida
Il corpo sociale tende a perdere pezzi, i cittadini/membri non si sentono più parte di esso. La società, di cui hanno sempre fatto parte, li allontana a favore di nuovi interessi, di nuovi obiettivi, di nuovi membri.
La società suicida si trasforma al suo interno, cambia forma: mutano le norme di riferimento, parte della cultura; quelle che prima erano minoranze ora si elevano a maggioranza e usano le istituzioni per assumere il controllo politico, sociale, economico (un esempio è la rivoluzione islamica iraniana).
Definizione univoca
La società suicida tende a sacrificare, in tutto in parte, i suoi membri in vista di un interesse, di un vantaggio per pochi.
La società suicida ha in sé, o accoglie in un secondo tempo, elementi sociali (uomini o interi gruppi) estranei a sé stessa. Gli elementi sociali prima estranei si adoperano per minare, sconvolgere, demolire l’assetto sociale generale della società, con l’obiettivo di crearne una nuova, diversa per caratteristiche e componenti (cultura, usi e costumi, norme e leggi).
Gli attori protagonisti del processo di suicidio sociale sono parte della dirigenza della società suicida. I dirigenti non perdono il proprio rango una volta che la società è mutata, bensì continuano a trarne ampi benefici, personali e/o di gruppo.
Panorama apocalittico
Siamo consapevoli che quanto esposto possa essere tacciato di allarmismo, di essere una visione apocalittica.
Si tratta, in effetti, di un ragionamento teorico che tuttavia si poggia su basi fornite dall’osservazione.
La realtà è sicuramente difficile da prevedere, a causa del suo essere in continua evoluzione in un contesto di ampia e fluida complessità.
Ad ogni modo, osserviamo la persistenza di fattori ed elementi specifici di una possibile deriva, verso il caso di società suicida, proprio come esposto sopra.
Per approfondire
E. Durkheim, “La divisione del lavoro sociale”, Ed. di Comunità, Milano, 1971
N. Luhmann, “Potere e complessità sociale”, Il Saggiatore, Milano, 2010
E. Canetti, “Massa e potere”, Adelphi, Milano, 1997
M. Castrignano, “Le radici del disagio in una società assente”, Quattroventi, Urbino, 1996
P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), “Città globale e città degli esclusi”, F. Angeli, Milano, 1998
C. Baraldi, “Il disagio della società”, F. Angeli, Milano, 1999
M. Greenhill, “Armi di migrazione di massa”, LEG, Gorizia, 2017
G. Dottori, “Non sarà l’immigrazione a rilanciare l’Italia” in LIMES n. 7/2016, ed. L’Espresso 2016, pag. 111
G. Meotti, “Il suicidio della cultura occidentale“, Lindau, Torino, 2018
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