La favola e la realtà nel mercato del lavoro italiano
Introduzione
Questo contributo raccoglie le riflessioni esposte durante un incontro di un gruppo parrocchiale.
L’argomento su cui riflettere era il lavoro, nella sua accezione più ampia. Abbiamo ritenuto opportuno presentare una provocazione, introducendo il tema del lavoro secondo una prospettiva antropologica e realista.
Le rilevanze introdotte a quel pubblico hanno generato vivaci polemiche, in particolare da parte di persone appartenenti alla classe media.
Solitamente le persone che vivono in bei quartieri urbani, dispongono di buone riserve monetarie, vantano un buono se non ottimo posto di lavoro, amano erigersi sul piedistallo della facile morale, credendo che il loro modo di vita sia ampiamente diffuso.
La loro falsa umiltà ha dimostrato, nuovamente, il loro snobismo nei confronti delle persone in difficoltà professionale e verso le altre che versano in precarie condizioni famigliari.
Parlare di lavoro
Il lavoro è una costruzione antropologica, tuttavia la maggioranza delle persone intendono il lavoro unicamente come l’insieme delle azioni attuate in azienda o simile. In verità, si lavora ogni qual volta ci si adopera per pulire, sistemare, rassettare, riparare, costruire, riordinare, assistere qualcuno. Il più grande insieme di opere lavorative si realizza nell’ambiente famigliare, fuori dal consueto orario professionale aziendale.
Tradizionalmente, il “lavoro può essere definito come lo svolgimento di compiti che richiedono l’esercizio di uno sforzo mentale e fisico e che hanno come obiettivo la produzione di beni e servizi destinati a soddisfare i bisogni umani” (A. Giddens, “Sociologia”, Il Mulino, Bologna, 1994, pag. 441).
Per questi motivi affermiamo che il lavoro ha rilevanza antropologica, esso è inscindibilmente legato all’esperienza vitale umana. Ne è parte integrante.
Dalle società primitive di raccoglitori e cacciatori, fino alle società complesse moderne, il lavoro è il protagonista delle giornate umane. “Il lavoro nobilita l’uomo” afferma un antico proverbio, indica la profonda importanza che esso assume per l’uomo e per la donna.
La fotografia del lavoro
Accettando l’importanza del lavoro nella vita di ogni persona, la riflessione che presentiamo rappresenta un richiamo, una provocazione rispetto a come si osserva il lavoro stesso nel quotidiano.
Abbiamo osservato il lavoro sulla base di una prospettiva dicotomica, semplificandola opponendo le caratteristiche ideali a quelle reali.
Ciò che è ideale è una vera e propria favola del lavoro, sono le aspettative i desideri gli auspici i diritti. La realtà, invece, ci consegna un’immagine esattamente opposta alle caratteristiche attese nel mondo del lavoro.
Ideale è la legge
Costituzione della Repubblica Italiana
“Art. 1 L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”
“Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”
“Art. 36 Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.”
“Art. 37 La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sa essenziale funzione famigliare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”
Deviare dalla legge
La realtà che sperimentano le persone “normali” è il comportamento deviato rispetto alla legge: precariato, lavoro nero, senza tutele, senza contributi, contratti atipici, collaborazioni fittizie, pratiche di lavoro scorrette, abusivismo, mobbing, sfruttamento, discriminazioni di genere ossia verso le donne.
Non c’è necessità di scomodare i ricercatori universitari o certe associazioni di categoria per avere conferma di questo quadro, è sufficiente cercare un’occupazione in certi settori produttivi, come il telemarketing, il commercio o l’edilizia.
Scoprire la propria vocazione
Son passati diversi anni da quando la maestra alle scuole elementari spiegava il senso e il valore del lavoro, presentando come esempio gli artigiani, i professionisti delle varie arti. Sono le persone che scoprono di avere una passione personale, che poi traducono in un effettivo mestiere.
La vocazione per un mestiere è un talento, una capacità innata, ottenuta anche attraverso lo studio: insegnanti, ingegneri, medici, infermieri, falegnami, calzolai, sarti e sarte, cuochi e chef.
I professionisti così descritti si aspettano di impiegarsi adeguatamente, con soddisfazione.
Adattarsi a un impiego qualsiasi
Nella realtà quotidiana, non tutte le vocazioni possono trovare una naturale soddisfazione. Molte persone devono adattarsi a un ripiego, a una professione generica, magari poco sopportabile.
Per esempio, non tutti coloro che manifestano una buona attitudine per la musica riusciranno a fare il musicista. Stesso discorso vale per tutti i letterati che vorrebbero lavorare in una biblioteca, oppure come editorialista in una casa editrice.
In realtà, è molto più facile trovare un impiego come lavapiatti, operaio delle pulizie o (paradossalmente) come contabile.
Il lavoro soddisfacente
Impiegarsi in attività soddisfacenti significa andare al lavoro col sorriso. La professione ideale è un progetto di vita oltre che una mera questione di stipendio. Sono gli obiettivi e i risultati raggiunti a dare valore alla propria giornata.
Anche solo constatare di avere creato un oggetto utile con le proprie mani significa avere ottenuto una certa soddisfazione.
L’alienazione
Saltiamo dal lavoro ideale e soddisfacente alla realtà fatta di lavoro alienante e insoddisfacente. Abbiamo anche noi constatato, in numerose esperienze, la carenza di un progetto nella professione svolta. Manca molte volte il coinvolgimento nel raggiungimento degli obiettivi, si finisce spesso per essere ridotti a pedine in un gioco sconosciuto.
Già nell’800 il filosofo K. Marx parlava di alienazione, di uscita da sé a causa delle negative condizioni di lavoro (R. Aron, “Le tappe del pensiero sociologico”, Mondadori, Milano, 1997, pag. 171 e seg.).
Le riflessioni di Marx sono sempre state applaudite dai membri radical chic della classe media, proprio quelli che attualmente manifestano un qualche disprezzo per le classi lavoratrici.
I baronetti della medicina vedono con malcelato disgusto i pazienti e i conoscenti, che non hanno ottenuto un successo professionale simile al loro.
La meritocrazia è sulla bocca di tutti
Il mercato del lavoro ideale premia il merito, incoraggia le persone più capaci, le sostiene, le conduce a soddisfacenti posti di prestigio. La meritocrazia è anche la prassi di collocare le persone giuste nel posto giusto, sia esso di alto o basso livello nella catena produttiva e dei servizi.
Un ragazzo capace di utilizzare un tornio crea un utilissimo servizio all’azienda che lo impiega, al pari di un bravo medico che cura con perizia i malati. Chi è meritevole ha il diritto di ottenere il posto di lavoro che gli spetta.
Ovunque chiunque parla di meritocrazia, ma nessuno ha mai indicato quale sia il suo indirizzo.
La realtà sociale boccia la meritocrazia
E’ il tema forse più avvilente della nostra riflessione, dover ammettere che il mercato del lavoro italiano è fatto di raccomandazioni, nepotismo, clientelismo, servilismo.
In Italia le persone trovano lavoro, nella stragrande maggioranza dei casi, tramite conoscenze dirette o indirette.
La pratica delle conoscenze e delle raccomandazioni è certificata da numerosi studi e indagini, nonché da testimonianze dirette. La politica italiana è il principale sponsor nonché esempio della raccomandazione, che nella maggioranza dei casi significa incompetenza tecnica e conservazione del bacino elettorale.
Cosa si può obiettare a chi denuncia distorsioni nelle selezioni durante i concorsi pubblici?
Il caso del chirurgo Lanzetta, bocciato al concorso pubblico.
La società italiana non ha alcun interesse a debellare la pratica delle raccomandazioni, considerando che storicamente la sua autoreferenza si basa proprio su di essa.
Per riscontri, rimandiamo i polemisti ai seguenti testi, consultabili in Biblioteca:
M. Granovetter, “Trovare lavoro”, in “Reti”, Donzelli, Roma, 1995, pag. 147-165
E. Reyneri, “Sociologia del mercato del lavoro”, Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 205-230
G. Rifkin, “La fine del lavoro”, Baldini & Castoldi, Milano, 1998
Per concludere, ma senza risolvere nulla
Il lavoro dignitoso, soddisfacente, appagante è una favola per molte persone; la realtà per loro è fatta di precariato, ingiustizie, mobbing, indifferenza, prevaricazione, discriminazione, licenziamenti improbabili, emarginazione sociale.
La nostra riflessione ha creato notevoli imbarazzi in coloro che l’hanno affrontata, soprattutto a quelle persone, benestanti e snob, che non hanno esperito mai cattive condizioni nel mercato del lavoro.
Invece di dimostrare empatia e una sana solidarietà verso chi non se la passa bene, le persone intervenute nel dibattito si sono soffermate a raccontare la propria storia che di sofferenza non aveva nulla. Per suscitare l’approvazione della platea parrocchiale, quelle persone hanno evidenziato di essere sempre attente a non tradire la loro morale (cattolica) sul posto di lavoro.
Per noi, si tratta di una evidente manifestazione del sociale nella sua forma più teatrale, recitativa, artefatta.
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